Giovani: impariamo ad ascoltarli

Giovani: impariamo ad ascoltarli

Oggi, nella Giornata per i diritti dei bambini e degli adolescenti, voglio parlarvi di un tema che mi sta a cuore: il modo in cui raccontiamo i giovani e le famiglie. Troppo spesso, quando si parla di ragazzi, il discorso si concentra sul disagio: li dipingiamo come fragili, problematici, in crisi. Dall’altra parte, i genitori finiscono sotto accusa, considerati incapaci di relazionarsi con i propri figli. È una narrazione che non funziona, e soprattutto non aiuta. Oggi più che mai, dobbiamo andare oltre.

Giovani: non una crisi, ma una risorsa

Sì, è vero, i dati mostrano delle criticità. Il 14% dei minori vive in condizioni di povertà assoluta, quasi uno studente su dieci conclude la scuola senza avere competenze di base adeguate, tanti ragazzi faticano a vedere regolarmente gli amici o vivono episodi di isolamento sociale​. Ma fermarsi a questi numeri significa dare un’immagine incompleta e ingiusta delle nuove generazioni.

I giovani non sono un problema, e nemmeno una “categoria fragile” da proteggere a tutti i costi. Sono invece una risorsa straordinaria. Nonostante le difficoltà, oltre il 60% degli adolescenti tra i 14 e i 19 anni dichiara di guardare al futuro con fiducia​. Cresce il loro impegno in attività di volontariato e movimenti per il cambiamento climatico. Questi ragazzi hanno una forza e una capacità di visione che dobbiamo riconoscere e valorizzare, non etichettare come “emergenza”.

E i genitori? Anche loro sono parte della soluzione

I genitori, a loro volta, finiscono spesso nel mirino. Uno studio recente ci dice che quasi la metà degli adulti sente di non riuscire a comunicare con i propri figli​. È facile, troppo facile, trasformare questo dato in un giudizio: “i genitori non sanno fare il loro lavoro”. Ma questa lettura è ingiusta e controproducente.

Dietro queste difficoltà, spesso, ci sono fattori esterni: il lavoro che lascia poco tempo, la pressione sociale, l’incertezza economica. I genitori non sono incapaci; sono persone che, come tutti, hanno bisogno di essere ascoltate e supportate. Non si tratta di fornire manuali d’istruzioni, ma di creare le condizioni perché le famiglie possano sentirsi parte di una rete di supporto, capaci di affrontare le sfide insieme ai propri figli.

Un cambiamento possibile, ma solo insieme

La verità è che non ci sono scorciatoie. Se vogliamo migliorare la condizione dei ragazzi e delle famiglie, dobbiamo lavorare insieme. Le scuole, le istituzioni, le associazioni, le famiglie stesse: tutti devono sentirsi coinvolti. Non si tratta di interventi miracolosi, ma di piccoli passi concreti.

Ad esempio, dobbiamo ricostruire spazi di dialogo, dove giovani e adulti possano parlarsi davvero. Troppo spesso, il problema non è la mancanza di soluzioni, ma la mancanza di ascolto. Impariamo a guardare i ragazzi negli occhi, a sentire le loro storie, a prenderli sul serio. E allo stesso modo, impariamo a riconoscere il valore dei genitori, a dar loro fiducia e strumenti per sentirsi protagonisti nel loro ruolo educativo.

Superare l’allarme per costruire responsabilità

Per fare questo, dobbiamo cambiare il modo in cui raccontiamo il disagio. Il disagio non è un’etichetta, non è una condizione definitiva. È una sfida, e come tutte le sfide può essere affrontata, se lavoriamo insieme.

Dobbiamo superare la logica degli allarmi. Le famiglie non sono “in crisi”, i ragazzi non sono “persi”. Sono parte di una società che ha bisogno di riconoscere i propri punti di forza per crescere. È qui che entra in gioco la responsabilità condivisa: smettere di cercare colpevoli e iniziare a costruire soluzioni.

Un futuro che parte dall’ascolto

La Giornata per i diritti dei bambini e degli adolescenti è il momento giusto per ricordarci che i giovani non sono numeri, né problemi da risolvere. Sono persone, con storie, sogni e potenzialità. E i genitori, come loro, non sono spettatori inermi, ma protagonisti di una comunità che può crescere solo insieme.

Guardiamo al futuro con fiducia. Non servono proclami, ma piccoli gesti concreti: ascoltare, dialogare, agire insieme. Perché non siamo emergenza. Siamo una società che ha tutto quello che serve per crescere e migliorare. Basta iniziare a crederci davvero.

La sfida educativa nelle periferie

La sfida educativa nelle periferie

Ho avuto l’opportunità di partecipare alla visita della Commissione Parlamentare sulle Periferie, invitato dall’On.le Paolo Ciani. Un’occasione importante, che ha portato i parlamentari a toccare con mano la realtà di due dei quartieri più complessi di Cassino, il Colosseo e San Bartolomeo. La visita si è conclusa proprio a San Bartolomeo, all’interno della Casa di Willy, uno spazio nato come simbolo di riscatto e attenzione al benessere delle persone, specialmente dei giovani.

Un esempio di rigenerazione sociale

La Casa di Willy è molto più di un centro educativo. Rappresenta l’impegno di un’amministrazione che ha voluto investire non solo in opere pubbliche e manutenzione, ma soprattutto nel tessuto sociale del quartiere. È un luogo di aggregazione sana ed educativa, pensato per dare ai ragazzi un’alternativa alla strada, un posto dove sentirsi accolti e supportati. Durante l’incontro, ho sottolineato ai parlamentari che questo tipo di iniziative non può restare un’eccezione. Ogni Comune dovrebbe avere a disposizione fondi per creare spazi di aggregazione, capaci di intercettare i giovani, soprattutto quelli più vulnerabili, anche attraverso interventi educativi di strada.

Investire sui giovani

Troppo spesso, infatti, le risorse pubbliche vengono destinate quasi esclusivamente alla manutenzione stradale o alle opere pubbliche, lasciando scoperti ambiti fondamentali come quello educativo. Non è possibile – ho detto ai parlamentari presenti – che si spendano milioni di euro per rifare le strade e poi non ci sia un centesimo per la protezione educativa dei ragazzi dei nostri quartieri. Questo è lo spirito con cui abbiamo voluto aprire il centro educativo a San Bartolomeo, e ci sarebbe bisogno di un’iniziativa simile anche al Colosseo, a Caira, a Sant’Angelo, a San Michele, e in tutti i quartieri di Cassino. È una necessità che le parrocchie, un tempo fulcro della vita sociale e della crescita educativa attraverso gli oratori, non riescono più a soddisfare per diversi motivi. Oggi è lo Stato, tramite i Comuni, che deve farsi carico di questa responsabilità.

Il ruolo delle istituzioni nella prevenzione

I fatti di cronaca che quotidianamente coinvolgono i giovani, tra reati violenti, episodi di bullismo, e altre forme di disagio, testimoniano che l’emergenza educativa è sempre più importante. Le istituzioni non possono più girarsi dall’altra parte o limitarsi a dare la colpa alle famiglie. Servono interventi strutturali e risorse per rispondere a queste sfide. La Casa di Willy è un esempio di buona pratica da replicare: non solo un centro, ma un progetto che coinvolge anche le realtà del terzo settore, una ricchezza inestimabile per i quartieri che può fare la differenza nella vita di molti ragazzi.

Servono impegni concreti e risorse certe

Viviamo in un’epoca in cui molti ragazzi sono soli di fronte a un mondo che si muove troppo in fretta, in cui la connessione è facile, ma i legami profondi sono rari. Sono figli di un tempo che non offre più certezze, che a volte sembra chiedere loro di crescere in un ambiente dove la violenza e il disorientamento sono all’ordine del giorno. In questa realtà, gli adulti – istituzioni, famiglie, comunità – hanno il dovere di tendere una mano, di creare spazi sicuri, di farsi garanti di una presenza che non giudica, ma guida.

Se non ci impegniamo ora a costruire luoghi come la Casa di Willy, a investire risorse nell’educazione e nella protezione dei nostri ragazzi, rischiamo di lasciare una generazione senza bussola, in balia di scelte difficili e spesso autodistruttive. La vera sfida per le periferie, e per tutti noi, è costruire insieme un futuro che non abbandoni i nostri giovani, ma li accompagni, con la pazienza e la cura che meritano.

Gioco d’azzardo: il dramma nascosto dietro lo schermo

Gioco d’azzardo: il dramma nascosto dietro lo schermo

Sempre più giovani, inghiottiti dal vortice del gioco d’azzardo, cadono nella trappola. Clic dopo clic, una scommessa dopo l’altra, inseguono l’illusione di poter vincere, di ribaltare il proprio destino, di dominare una partita truccata. Quello che credono essere solo un gioco si trasforma, però, in un abisso senza fine. Questi ragazzi finiscono stritolati in un ingranaggio che non perdona, che risucchia ogni risorsa: economica, sociale, personale.

Non è solo un fenomeno legato alla fragilità individuale: è un dramma collettivo, un cancro che si espande silenziosamente. E la provincia di Frosinone non fa eccezione. Lo conferma la ricerca dell’Università di Cassino, realizzata dal Laboratorio di Ricerca Sociale diretto dal professor Maurizio Esposito. Dati durissimi, che ci sbattono in faccia una realtà allarmante.L’indagine evidenzia come il gioco d’azzardo stia corrodendo non solo chi vive già ai margini, ma anche giovani. Giovani che, a causa della crisi economica e lavorativa, vedono nella vincita facile un’uscita dalla disperazione. È una discesa lenta e inesorabile, spesso nascosta anche a chi è vicino.

Il click della rovina

C’è un dato che fa impressione. Dopo la pandemia, il gaming online è esploso con un aumento del 130%. Mentre le vecchie slot machine perdono terreno, i giochi e le scommesse online crescono a dismisura. Nel 2023, le somme giocate dagli italiani sono arrivate a rappresentare il 16% del reddito imponibile. Un dato che parla chiaro: i giovani italiani fra i 25 e i 34 anni hanno aperto oltre un milione e duecentomila conti gioco online. Un milione di vite potenzialmente a rischio di essere rovinate.E il vero pericolo? La dipendenza da gioco online è subdola, nascosta, lontana dagli occhi di chi potrebbe intervenire. I genitori, gli amici, non vedono. I giocatori sono soli, davanti a uno schermo che inganna e che non lascia scampo. Quello che sembra un passatempo innocente, si rivela una trappola inesorabile. E troppo spesso, quando se ne rendono conto, è già tardi.

Servono risposte nuove

Il primo punto di riferimento anche per le persone con dipendenza da gioco è il Servizio per le Dipendenze della Asl. In provincia ce ne sono quattro: a Frosinone, Cassino, Sora e Ceccano. Ma serve fare di più. Per questo dal 1° settembre, in collaborazione con il Ser.D. di Cassino e la Asl di Frosinone, abbiamo attivato un nuovo Centro Diurno per le dipendenze comportamentali, incluso il gioco d’azzardo. Un rifugio per chi non sa più come uscire dal tunnel. Un luogo dove chi soffre può trovare un programma di riabilitazione, dove affrontare la propria dipendenza con il supporto di professionisti, attraverso psicoterapia, sport e sostegno. Un luogo dove tornare a respirare.In realtà già da due anni, in collaborazione con il Consorzio per i Servizi sociali, è stato attivato un gruppo di auto aiuto per giocatori problematici che finora ha coinvolto una trentina di persone. Ma c’è ancora tanto da fare per sensibilizzare il territorio di fronte a questa piaga sociale.

Un problema che riguarda tutti

Siamo di fronte a una battaglia che la società non può più ignorare. Non è più possibile chiudere gli occhi. Serve un’azione collettiva, che parta dall’educazione nelle scuole e arrivi alla regolamentazione dell’offerta di gioco. Troppe sale giochi, troppi luoghi di tentazione a portata di mano. Dal punto di vista medico e della salute mentale non possiamo permettere che i bar e i tabaccai diventino luoghi di perdizione. Ben vengano posti dedicati esclusivamente al gioco ma fuori dai centri abitati.La recente introduzione delle nuove linee guida per l’educazione civica nelle scuole parla finalmente di prevenzione delle dipendenze: prendiamo la palla al balzo. Immaginate l’impatto che avrebbe un’ora di educazione civica passata in una comunità come Exodus, a contatto con chi ha toccato il fondo.Sarebbe un’esperienza formativa, reale, che colpirebbe al cuore. Solo così possiamo davvero sperare di prevenire il disastro.
Solitudine e fragilità: l’ombra nascosta della generazione iperprotetta

Solitudine e fragilità: l’ombra nascosta della generazione iperprotetta

Diciassettenne pluriomicida: solitudine e fragilità opprimono gli adolescenti di oggi, generazione iperprotetta vittima di un mondo virtuale che alimenta fragilità e isolamento.

Stavolta la droga non c’entra, l’alcol non c’entra, la malattia mentale non c’entra. Non c’è bullismo, non c’è separazione dei genitori, non c’è abuso di social, anzi. Riccardo, 17 anni, era studioso, serio, sportivo, tranquillo e con la fidanzata. Ma si sentiva solo. La solitudine lo opprimeva. In mezzo agli altri si sentiva un corpo estraneo e così era pure in famiglia. Da qualche giorno gli girava in testa uno stesso pensiero: eliminare quelli che non lo capivano. Quelli che avrebbero dovuto essere motivo di gioia, di sicurezza, di protezione: la famiglia. E che invece nella sua testa rappresentavano il contrario, il motivo del suo disagio. (Leggi qui: Strage in famiglia, il ragazzo al pm: ‘Vivo un malessere’ ma era lucido. Nessun movente accertato).

Il disagio

Quello stesso disagio che ogni adolescente affronta ogni giorno e di fronte al quale ogni genitore è costretto a domandarsi dove ha sbagliato, cosa è andato storto, cosa sarebbe potuto andare diversamente. Mentre i ragazzi pensano a come liberarsi da quell’oppressione, Riccardo covava l’assurda idea omicida che partiva da un pensiero ossessionante: «Non avevo un vero dialogo con nessuno. Era come se nessuno mi comprendesse». Per tanti ragazzi la fuga dal disagio si trasforma in bullismo, uso di alcol e droghe, abuso di internet e videogame. Per altri invece, forse come Riccardo, sempre di più negli ultimi anni, la fuga dalla realtà diventa una specie di auto condizionamento mentale che diventa ansia, attacchi di panico, angoscia immotivata. (Leggi qui: Occhi chiusi per non vedere la droga che uccide i nostri ragazzi).

La generazione ansiosa

I nostri adolescenti sono quelli che hanno chiuso l’epoca del gioco e hanno aperto l’epoca dello smartphone. Hanno cambiato completamente il modo di essere bambini e ragazzi. Si immergono per ore nel mondo virtuale fatto di immagini e video che rimandano un messaggio denominatore comune: la felicità non è dove sei tu, è qui dove stiamo girando questo video. E tu non ci sei. Da qui nasce l’ondata di ansia, depressione, disturbi alimentari, istinti autolesionisti e suicidari. L’ondata di malattia mentale che investe il mondo degli adolescenti da dieci anni a questa parte.

Dalla scoperta della vita alla difesa dalla realtà

Prima i ragazzi erano presi dalla voglia di scoprire la vita, avevano fretta di diventare adulti, conoscendo il mondo conoscevano sé stessi e sbattendo il muso contro le illusioni intanto si rinforzavano e si preparavano alla vita adulta. Poi sono diventati grandi e sono diventati genitori e sono diventati protettivi, anzi, iperprotettivi. Oggi possiamo localizzare in qualunque momento i nostri figli e, volendo, potremmo attivare da remoto il microfono del loro telefono per ascoltare quello che gli succede intorno, con chi parlano e di cosa parlano (Leggi qui: Cellulari fuori, educazione dentro. Adulti sotto esame). Quando però girano per 7/8 ore al giorno su internet, non sappiamo dove vanno, cosa vedono e cosa leggono. Ci piace pensare che stando sul letto della loro camera non corrano nessun rischio. Nel frattempo quella voglia di scoprire il mondo si è trasformata in necessità di difendersi da tutto. Tutto è un pericolo, tutto è una minaccia. Anziché cercare nuove esperienze cercano di difendersi dall’ansia.

Parliamone

Chi ha tolto ai nostri figli la fiducia nel futuro? E nel prossimo? Chi ne ha fatto una generazione di persone fragili e apprensive? Chi gli impedisce di affrontare rischi ed emozioni, di imparare a dominare le proprie paure, di sviluppare quelle capacità di affrontare i problemi e le conseguenze del loro agire? Siamo noi genitori, resi ansiosi a nostra volta dalla società della paura nella quale viviamo, dove certa politica e certa comunicazione ci hanno insegnato a prendere le distanze da tutto ciò che è altro da noi. E così ci ritroviamo figli spesso incapaci di badare a sé stessi, incapace di gestire conflitti e frustrazioni. Fragili e soli, come Riccardo. Non ci sono soluzioni drastiche efficaci, non ci sono ricette, ogni adolescente è una foresta di sentimenti, ogni famiglia è un mondo a parte. Ma bisogna parlarne, confrontarsi, non avere paura. Provare con fiducia a darsi delle regole, accettare il conflitto coni figli, consapevoli che è proprio dentro al conflitto che i figli si rafforzano. Nel confronto che, scoprendo le differenze, imparano a conoscere sé stessi. Senza darsi obiettivi stupidi come assomigliare alla famiglia del Mulino Bianco. A Riccardo non è servito. Non serve a nessuno.

(Foto di Copertina © freepik)

Stop agli smartphone in classe

Stop agli smartphone in classe

Da settembre il cellulare resta a casa o al massimo chiuso nello zaino. Ritorna il caro vecchio diario di carta per segnare i compiti. Smartphone banditi dunque, anche per uso didattico sotto il controllo degli insegnanti.
L’uso eccessivo della tecnologia ha un impatto negativo e potenzialmente pericoloso sullo sviluppo cognitivo dei ragazzi. Per non parlare del crollo del rendimento scolastico degli adolescenti. Distrazione, perdita di memoria e di concentrazione, diminuzione della capacità dialettica e di spirito critico. Con tanto di studi scientifici a supportare la decisione del Ministro accolta con favore da tanti genitori rassicurati dal provvedimento.
Insomma il nemico smartphone è messo all’angolo. Ed ora? Assisteremo ad un cambiamento generazionale epocale? Ai social abbiamo dato la colpa di fronte ai ragazzi depressi, a quelli che si comportano male con gli adulti, a quelli che non vanno bene a scuola, di fronte agli episodi di bullismo e alle sfide pericolose. Tutto il disagio e la sofferenza giovanile di questi anni hanno trovato una causa, il famigerato cellulare che adesso dovrà vedersela con il Ministro dell’Istruzione. Quanto ci piace semplificare la complessità del nostro tempo! Anche perché così abbiamo più tempo per postare su tutti i social le nostre opinioni, la nostra vita privata, la rappresentazione di noi stessi che ci fa sentire all’altezza di una timeline straboccante di modelli di successo. Sarà anche per questo che andiamo perdendo credibilità di fronte ai ragazzi?

Torniamo a fare gli adulti

Non c’è dubbio che oggi fare il genitore è più complicato di ieri: l’era digitale mette i ragazzi su un piano diverso dal nostro approccio “analogico” alle cose della vita. Però l’uso smodato della tecnologia e dei social, diciamocelo, riempie un vuoto, per un per un bel po’ di tempo delle nostre giornate. E poi lascia un vuoto ancora più profondo. E piano piano diventa come una droga. Ti da la sensazione di benessere, di euforia, ti fa dimenticare i problemi, poi finisce l’effetto e i problemi tornano ingigantiti. E si ricomincia. Un circolo vizioso che giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno ci va trasformando in adulti sempre meno adulti e sempre più adolescenti. Sempre più fragili. E magari pensiamo anche che i nostri figli non se ne accorgano. Però tutti a parlare della fragilità degli adolescenti confortati da studi, statistiche, esperti e gridi d’allarme.

Fuori il cellulare, dentro l’educazione digitale

Mettere al bando il cellulare non basta. A noi adulti, a scuola e in famiglia, resta il compito di educare ad un uso consapevole e responsabile dello smartphone e dei social. Da dove si comincia? Con un po’ di umiltà bisogna imparare alcune cose prima di spiegarle ai ragazzi. In rete si trova di tutto ma anche questo approccio rischia di essere semplicistico di fronte a questioni così complesse. La cosa migliore è partecipare a qualche momento formativo rivolto agli adulti, genitori e insegnanti, con la presenza di esperti. Gli incontri “in presenza” sono importanti perché consentono di confrontarsi, porre dubbi, sperimentare gli strumenti, ad esempio di parental control, condividere soluzioni, buone prassi e abbassare il livello di ansia. Il primo bisogno dei genitori è quello di non sentirsi soli perché il senso di impotenza ovviamente prelude all’atteggiamento rinunciatario. E a forza di rinunciare ad educare i figli stiamo finendo per rinunciare a farli i figli.

L’Università della Famiglia

Ci sono tante realtà del terzo settore, ma anche Scuole e qualche Comune, che organizzano incontri di formazione per genitori ed insegnanti. Exodus ha lanciato diversi anni fa l’Università della Famiglia che, anche quest’anno, ad ottobre, riaprirà le attività con incontri animati da esperti con lunga esperienza di lavoro con gli adolescenti, nel campo del disagio giovanile, delle dipendenze, della relazione educativa e della progettazione sociale. La famiglia e la scuola sono i fattori di protezione più importante contro la sofferenza che galoppa tra i giovani, soprattutto dalla pandemia in poi. Informarsi, capire ed educare è un compito e una responsabilità a cui non possiamo sottrarci. Proviamo a farlo insieme, proviamo a farlo tutti.

Foto di copertina: Image by freepik

Il carcere e la città

Il carcere e la città

Ventuno anni, poco più che adolescente. Questa l’età di ragazzo morto nel carcere di Frosinone qualche giorno fa. Ha inalato il gas di una bomboletta da campeggio e sembra improbabile che possa averlo fatto per errore. Un’indagine con cui accertarlo è stata aperta dalla procura del capoluogo. Dunque potrebbe trattarsi del quarantottesimo suicidio nelle carceri italiane di quest’anno. Ma ad oggi siamo già a 50 casi e in questi primi sei mesi del ‘24 ce ne sono anche 5 che riguardano gli agenti di custodia. Il mondo delle politiche sociali deve interrogarsi, oggi più che mai, su come ridare dignità alle persone detenute.

Lo “svuota-carceri”

Mentre scrivo il Ministro Nordio presenta in Consiglio dei Ministri il decreto “svuota-carceri” con sconti di pena e facilitazioni per le misure alternative ma il sovraffollamento non è l’unico aspetto. Il vero punto, che anche questo decreto non prova nemmeno ad affrontare, è la funzione rieducativa della pena, per la quale servirebbero educatori (appunto!), psicologi, scambio con le realtà (accreditate!) del Terzo settore.

Un mondo a parte

Entro in carcere da tanti anni per incontrare detenuti con problemi di tossicodipendenza. Con loro si incontra un mondo profondamente complesso, fatto di cancelli pesanti che ti si chiudono alle spalle ad ogni corridoio. Ma anche di persone che vivono o lavorano immerse in una dimensione parallela a quella della normalità.

Cassino, Frosinone, Regina Coeli, Rebibbia, Poggio reale, Nisida: il carcere è un mondo a sé stante dove il tempo ha senso solamente nell’attesa del fine penaNon è un tempo di ricostruzione, non è un tempo di conversione, non è un tempo di rieducazione, non è un tempo di cura. Perlomeno nella stragrande maggioranza dei casi. Anche a causa della mancanza di personale.

Eppure, non occuparsi della rieducazione dei detenuti, della ricostruzione delle loro abilità sociali, dei loro percorsi formativi e di reinserimento lavorativo è il più grande danno che la società possa fare a sé stessa perché quando il detenuto esce dal carcere non ha nessuna opportunità che gli impedisca di tornare a delinquere. Non ha paura di tornare in carcere perché non ha nulla da perdere.

Il “doppio fardello”

A maggior ragione se vive una condizione di salute compromessa come il disagio psichico, la tossicodipendenza, le varie forme di disturbo della personalità. La sanità penitenziaria è lontana anni luce dalla possibilità di prendere in carico realmente la sofferenza di queste persone.

Nel libro “Il doppio fardello” il professor Maurizio Esposito, partendo da un lavoro di ricerca molto approfondito, mette a nudo tutti i limiti del sistema penitenziario sul tema del diritto alla salute di persone alle quali non solo è negata la libertà ma anche la cura di malattie croniche che, di fatto, pregiudicano le relazioni e le prospettive future. Occuparsi della loro salute è il primo modo per ridare dignità alle persone detenute.

In un’intervista Giovanni Maria Flick (ex ministro di Giustizia e presidente della Corte Costituzionale) ricorda che “il carcere viene considerato un mondo a parte, poroso ma impermeabile a qualsiasi forma di cambiamento; uno strumento di reazione alla paura del diverso”. Invece di essere utilizzato come extrema ratio, per casi particolarmente gravi è lo strumento per risolvere problemi ordinari. A parere del giurista si continua a perseguire la strada del “carcere a ogni costo” e “ci si dimentica dei diritti e della dignità del detenuto, oltre che della funzione educativa della pena”. Aggiunge: “Ma c’è un principio che spesso viene dimenticato: è la pari dignità sociale, la quale non esclude nessuno, neanche i detenuti; neanche i condannati per i reati più gravi. È una dignità che spesso viene negata nei fatti che sembrano rendere impossibile un carcere diverso da quello attuale”.

Dignità alle persone detenute

Eppure iniziative innovative e molto interessanti si intravedono all’orizzonte come ad esempio la  collaborazione tra l’Università e il Carcere di Cassino che ha portato l’anno scorso il primo detenuto al conseguimento della laurea triennale in Servizi giuridici. Il progetto “Università in carcere” sta a dimostrare che i muri si possono superare. Così come numerosi sono i Volontari che intraprendono iniziative di solidarietà verso i detenuti.

Nella nostra provincia esistono tre istituti penitenziari, Frosinone, Cassino e Paliano, nei quali gli operatori della sicurezza, gli operatori sanitari e i volontari vivono più o meno gli stessi problemi. 

Mi domando se non possa avere senso costituire un Coordinamento “Carcere e città”. Gli Assessori alle politiche sociali dei 3 Comuni interessati potrebbero animare questo tavolo per dare maggiore incisività alle iniziative che hanno al centro i detenuti, le loro famiglie, le condizioni di vita in carcere e i difficili percorsi di reinserimento. Non il carcere dove ognuno coltiva il proprio orticello, bene sicuramente, ma il carcere dentro alla città dove fare rete significa che gli operatori possono aiutarsi tra di loro, scambiare buone pratiche, che i detenuti possono contare sul sostegno integrato di varie realtà, istituzionali e del privato sociale, dove la speranza possa trasformarsi in certezza di impegno corale per ridare dignità alle persone detenute. 

È chiaro che disperazione e solitudine diventano facilmente terreno fertile per gesti estremi ma non possiamo sopportare che in Italia, finire in carcere debba significare morte della propria dignità di essere umano.

Droga, apriamo gli occhi!

Droga, apriamo gli occhi!

Passata più o meno sotto silenzio anche quest’anno la Giornata mondiale di lotta alla droga. Il 26 giugno il Governo ha presentato i dati della relazione annuale al Parlamento mettendo in evidenza che quattro giovani su dieci tra i 15 e i 19 anni nel 2023 hanno fatto uso almeno una volta di sostanze stupefacenti. E in Provincia di Frosinone che succede? Il rapporto dell’osservatorio epidemiologico segnala che sono oltre 1.800 gli utenti in carico alla ASL. Da non dimenticare le persone, un centinaio circa, accolte dalle tre comunità terapeutiche In dialogo a Trivigliano, Nuovi orizzonti a Piglio e Fondazione Exodus a Cassino dove seguono un programma di riabilitazione residenziale.

Si conferma l’allarme, soprattutto in considerazione del fatto che i numeri ufficiali corrispondono ad almeno un terzo dei numeri veri, fatti dalle tante persone che per tanti motivi non si rivolgono ai servizi del pubblico e del privato sociale. Il boom di cocaina e crack si rispecchia negli episodi sempre più numerosi che negli ultimi anni vedono giovani protagonisti di episodi violenti. In questi giorni siamo impressionati dalla morte del povero Thomas a Pescara ma le “nostre” storie recenti di Alatri, Colleferro, Frosinone hanno tutte a che fare con le droghe che scorrono a fiumi nella nostra provincia.

I dati finalmente mettono in luce anche un altro fenomeno che riguarda sempre più spesso le ragazze: l’utilizzo di psicofarmaci senza prescrizione medica. Fatto che non si può non mettere in relazione con i fenomeni di isolamento sociale e di depressione che investono i nostri ragazzi. E con i suicidi che pure fanno sempre più impressione per la frequenza con cui caratterizzano una gioventù sempre più fragile e disorientata di fronte ai problemi della vita.

Potremmo parlare dell’alcol ma continuare a rincorrere i dati sull’uso di sostanze, da anni, non cambia le cose. Il punto è che abbiamo smesso di investire sull’educazione agli stili di vita sani. Abbiamo smesso di scommettere sulla prevenzione come risposta al disagio. Abbiamo disinvestito su tutte le azioni educative, proprio adesso che, nel post covid, la fragilità dei nostri adolescenti si vede da diversi sintomi: l’aumento dell’isolamento sociale, l’incremento degli atti di autolesionismo e di intenti suicidari. La questione delle sostanze è un effetto, ma non è l’unico: è il sintomo di una condizione di fragilità che è in costante aumento.

Ogni tanto si fanno interventi nelle scuole per parlare dei pericoli delle droghe ma dobbiamo dirci onestamente che è solo può modo per metterci a posto la coscienza: i ragazzi conoscono le sostanze e sono perfettamente consapevoli dei rischi, l’approccio disfunzionale si usava decenni fa, ma oggi sappiamo che non serve.

Droghe, alcool, dipendenze affettive, azzardo hanno tutte la stessa origine: sono modi per cercare la felicità al di fuori di sé. Sotto la dipendenza c’è sempre una sofferenza, un fuoco, su cui non basta mettere il coperchio, bisogna spegnere le fiamme.

Le strategie di lotta alla droga servono per quelli che già ci sono cascati e lottano per uscirne. Per questo abbiamo il lavoro che portano avanti i Ser.D. e le strutture del privato sociale. Anche se servono fondi e personale qualificato. Mancano medici, psichiatri e psicologi mentre le tariffe sono ferme al 2012 mentre in 12 anni il costo di tutto è raddoppiato.

Ma il punto vero è il completo disinteresse di questo Paese per le Politiche giovanili. La qualità del tempo libero che offriamo ai nostri ragazzi è pessima: il muretto, il centro commerciale, il campetto e poi? Quali spazi dedicano le nostre città ai ragazzi? Dove possono incontrarsi in maniera informale? E perché gli spazi di aggregazione di una volta non funzionano più? L’offerta ideale per il tempo libero degli adolescenti e dei ragazzi dovrebbe prevedere non attività già organizzate a cui loro si iscrivono, ma luoghi auto-organizzati. È necessario un progressivo arretramento del mondo adulto per lasciare ai ragazzi spazi da gestire, organizzare e ripensare.

A Cassino ci abbiamo provato con il Consiglio comunale dei giovani e lo stesso avviene a Sora, a Ceccano e in altri centri. Così come abbiamo inventato la “Casa di Willy” nel quartiere San Bartolomeo, sempre a Cassino, uno dei più difficili anche per la presenza di importanti luoghi di spaccio. Dico che abbiamo “inventato” perché non esistono fondi in Italia, né dal Governo, né dalle Regioni che possano essere utilizzati dalle città per aprire centri di aggregazione giovanile.

Una volta le Province erano titolari della responsabilità di attuare il Piano Locale Giovani, lo facevano con i fondi della Regione. Oggi non ci sono più né i fondi, né le competenze. Ciò non toglie però che, con un atto di coraggio e con un po’ di speranza nel futuro, ci si possa mettere intorno ad un tavolo e riaprire il ragionamento. Ai nostri ragazzi lo dobbiamo. Di segnali ce ne stanno mandando parecchi!

    Ne è valsa la pena

    Ne è valsa la pena

    Una cosa è certa: ho ricevuto molto di più di quello che ho dato. E questo è sufficiente per dire che ne è valsa la pena: dalle primarie del 2019 alle comunali di quest’anno ho perso e ho vinto e poi ho perso ancora ma la politica è entusiasmo, voglia di provarci, orgoglio di essersi messi in gioco.
    Soprattutto ne è valsa la pena perché oggi possiamo dire con certezza che la politica non è riservata ai professionisti, perché quando c’è una comunità unita da ideali ed entusiasmo si può affrontare qualunque sfida pur di essere all’altezza dei propri sogni.
    Oggi è il momento della delusione ma la passione per il bene comune continuerà in altre forme, certi che vale sempre la pena di “provare a lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”.
    È stato un privilegio servire la mia città per cinque anni, accompagnando la speranza di chi, fra i più fragili, aveva bisogno di una risposta chiara, concreta e immediata dalle Istituzioni.
    Smaltiremo la delusione e riprenderemo il cammino al servizio del bene comune con ottimismo perché si può perdere un’elezione ma non il buonumore.
    A chi prenderà il mio posto lascio cose fatte con il cuore, progetti nati dall’incontro con le persone, mattoni solidi con i quali abbiamo reso più solida la nostra comunità.
    Ringrazio davvero tutti quelli con cui abbiamo fatto insieme questo pezzo di strada.
    Ma non si arriva se non per ripartire e siccome abbiamo dalla nostra parte l’entusiasmo, il tempo e la libertà continueremo ad occuparci di politica anche perché comunque la politica continuerà ad occuparsi di noi.
    Buona strada al Sindaco Enzo Salera e alla nuova maggioranza affinché portino avanti la rivoluzione che abbiamo iniziato insieme.

      Giornata mondiale sull’autismo

      Giornata mondiale sull’autismo

      L’occasione è nata nell’ambito del progetto “Open Sport”, il cui obiettivo è quello di favorire l’inclusione e la socializzazione delle persone in condizione di disabilità fisica o intellettiva, e delle persone che stanno vivendo una situazione di disagio relazionale a causa delle dipendenze.

      Lo sport e l’attività fisica in generale sono infatti lo strumento eletto per il miglioramento generale della vita di chi si trova in condizioni di particolare fragilità.

      Il parco che circonda la tenuta di Exodus ha accolto, sabato, quasi 70 minori disabili che sono stati seguiti da 20 operatori sportivi della disabilità, tra i quali almeno 5 istruttori specializzati nelle varie discipline. Baskin, pallacanestro in carrozzina, allenamento funzionale, karate, attività ricreative e laboratori all’aperto, hanno permesso di alzare l’asticella delle opportunità per i ragazzi e i bambini coinvolti e anche per le loro famiglie.

      Lo scopo di tutto il progetto è infatti proprio quello di disporre di un’offerta sempre più variegata e numerosa di attività sportive, praticabili anche per le persone con disabilità.

      Essere disabili o trovarsi in una condizione di disagio sociale, secondo il presupposto del progetto “Open Sport”, non può e non deve essere un limite alla possibilità di affrontare le sfide dello sport, e alle occasioni di confronto e crescita in mezzo agli altri.

      Non è stato trascurato l’aspetto sanitario e l’attenzione verso i partecipanti che hanno avuto a disposizione anche un osteopata e un medico per effettuare gratuitamente l’elettrocardiogramma a chi ne avesse fatto richiesta.

      Un incoraggiamento speciale è arrivato dall’atleta plurimedagliato Giuseppe Campoccio, conosciuto come “Joe Black”, campione paralimpico di getto del peso, lancio del disco e lancio del giavellotto, che ha al suo attivo ben 124 medaglie e si sta preparando, in queste settimane, alle Para Olimpiadi di Parigi che si svolgeranno dal 28 agosto all’8 settembre prossimi. Campoccio ha portato la sua testimonianza durante l’incontro che si è svolto nella Sala Talenti di Exodus (concomitante alla manifestazione sportiva esterna), e che ha visto, tra i partecipanti, Luigi Maccaro, responsabile Exodus Cassino e Assessore Comunale alla Coesione Sociale, la coordinatrice del progetto Open Sport Emanuela Torcinaro, l’educatrice professionale Marcella Vaccari, da Modena, Silvia Cannizzo del progetto OpenHub Lazio, il delegato provinciale del Comitato Italiano Paralimpico Eliseo Ferrante, e Franco Mazzarella del Sindacato Pensionati Italiani di Frosinone/Latina. All’incontro hanno preso parte anche molti genitori ed operatori dei ragazzi disabili, che hanno voluto lasciare la loro testimonianza parlando dell’esperienza dei rispettivi figli nei percorsi sportivi già avviati grazie ad Open Sport. Tra loro anche Laura De Fabritiis, socia fondatrice di LiberAutismo, e Isabella Mollicone, presidente di Aide.

      L’impegno di enti, associazioni e persone coinvolte ha permesso ad Open Sport di rendere operativi, già da questi giorni, gli hub sportivi di Cassino, Piedimonte San Germano e Atina, che ospiteranno ciascuno una delle discipline sportive disponibili per i ragazzi, i bambini e gli adulti disabili. I corsi, che saranno tenuti da istruttori e operatori qualificati, sono completamente gratuiti. Per accedervi è necessario contattare lo Sportello di Orientamento in modo da fissare un appuntamento o una consulenza (disponibile anche direttamente in modalità on line) con gli educatori. Successivamente al colloquio conoscitivo sarà possibile stabilire il percorso sportivo più adatto alla propria condizione o alle inclinazioni di ciascuno.

      di Barbara Mollicone